mercoledì 5 agosto 2009

MASCIOTTA

MEMORIE STORICHE ANTICHITÀ (Masciotta)

Larino nella seconda guerra punica - La battaglia pugnata nell'agro larinese nel periodo della seconda guerra punica (217-201 a. C.) non consiste già in una giornata campale, come generalmente si ritiene dagli orecchianti di storia; ma in una serie di epi­sodi che si svolsero in tempo assai lungo, dei quali ci sono noti il primo e l'ultimo, e cioè l'iniziale e il risolutivo, per la narrazione che Livio ne fa.

Annibale era accampato a Gerione (195): Fabio Massimo, Dittatore a Larino. Fa­bio, avendo dovuto andare a Roma pei sacrifici e per le incombenze altissime di cui era investito, lasciò il comando delle milizie a Minucio Maestro dei Cavalieri: il quale, avi­do di gloria e stanco dell'inerzia a cui la strategia del "Cunctator" costringeva le legio­ni, profittando dell'interinato, prese l'offensiva contro Annibale. Ed ecco come Livio narra la vicenda: "L'esercito Romano era allora nel Contado Larinate sotto il coman­do di Minucio maestro dei cavalieri, essendo il dittatore, come s'è detto, andato a Roma. Del resto, già il campo, ch'era stato piantato sul monte in luogo alto e sicuro, si trasporta al piano; e già bollivano in campo più caldi pensieri, conformi all'indole del capitano, di piombare addosso ai foraggianti dispersi, o sul campo lasciato con piccolo presidio.

Nè sfuggi ad Annibale, che s'era mutata col comandante anche la maniera del guerreggiare, e che i nemici si sarebbero diportati con più ferocia, che con prudenza. Egli poi, cosa da non credersi, essendo il nemico cosi vicino, mandò la terza parte dei soldati a foraggiare, e due parti ne ritenne presso di sè; indi portò il campo più presso al nemico, quasi a due miglia da Geronio, sopra un poggio a vista dei nemici, perchè sapessero, ch'egli era intento a difendere la gente mandata a foraggiare, se si volesse assaltarla.

Poi gli apparve un'altra eminenza più vicina e a ridosso dello stesso campo Romano; e perchè, se andasse ad occuparlo di giorno alla scoperta, il nemico l'avrebbe sen­za dubbio per via più corta prevenuto, alquanto Numidi, spediti occultamente di not­te, la pigliarono. Il di seguente i Romani, sprezzatone il poco numero, scacciateli di là, vennero ad accamparsi essi stessi. Cosi, allora, un solo piccolo spazio dividendo i due steccati, e questo stesso l'aveva quasi tutto riempiuto l'esercito Romano, i caval­leggieri spediti dalla parte opposta al campo di Annibale a dare addosso ai foraggian­ti, dispersi, com'erano, li volsero in fuga, e ne fecero gran macello.

Nè osò Annibale di venire a battaglia; perchè con si poca gente poteva appena di-fendere gli alloggiamenti, se fossero stati assaltati. E già, essendo assente una parte dell'esercito, Annibale governava la guerra coll'arti stesse di Fabio, standosi quieto, e temporeggiando; ed aveva rimessi i suoi nel primo campo sotto le mura di Geronio.

Alcuni anche hanno scritto, che s'era venuto a giornata campale; che al primo scontro il Cartaginese era stato sbaragliato e respinto nei suoi alloggiamenti; che indi fatta all'improvviso una impetuosa sortita, era passato il terrore alla parte dei Roma­ni; che infine, sopraggiunto il Sannite Numerio Decio, s'era rimossa la battaglia; che questi, primo per sangue e per ricchezze non solamente in Boviano, ond'era, ma in tutto i! Sannio, conducendo al campo per ordine del Dittatore otto mila fanti e cin­quecento cavalli, essendosi mostrato alle spalle di Annibale, presentò all'una e all'al-tra l'appartenenza di un nuovo soccorso, che venisse da Roma insieme con Fabio; che Annibale temendo di qualche insidia, aveva richiamato i suoi; che i Romani, avendolo inseguito, s'erano impadroniti in quel giorno stesso, coll'aiuto del Sannite, di due castelli; ch'erano rimasti morti sei mila nemici, e dei Romani circa cinque mila. Pure, in perdita quasi tanto eguale, s'era andata a Roma la fama di una insigne vittoria con lettere ancor più vanagloriose del maestro dei cavalieri " (196).

Roma, dunque, era festante per successo; il nome di Minucio correva sulla bocca di tutti; si deplorava che con comandanti di tal forza e con tali soldati si fosse costretti all'inazione per l'ostinato volere d'un uomo solo, di Fabio; e si era irritati della gelosia che Fabio non dissimulava verso il glorioso subordinato nelle interviste a cui si presta­va, asserendo di non credere nè alla fama, nè ai rapporti ufficiali sugli eventi bellici lan­nesi, e sentenziando che nell'interesse pubblico temeva più le vittorie di Minucio che le sue eventuali sconfitte.

Della pubblica opinione, cosi stranamente montata per tanto poca cosa, si rese eco

nel foro Marco Metilio, tribuno della plebe, il quale propose che se non volevasi revo­car Fabio dal comando, si pareggiasse a lui senz'altro il Maestro dei cavalieri. Questa proposta fu portata in Senato da Caio Terenzio Varrone, uomo torbido e ambizioso, da beccaio pervenuto a Questore e a Pretore, ed allora aspirante al Consolato: e il Sena­to - assente il Dittatore - l'accolse e suffragò.

Quinto Fabio Massimo, uomo non popolare e dell'impopolarità incurante, si era assentato di proposito dalla discussione che lo riguardava tanto da presso, e nottetem­po parti per raggiungere l'esercito. Seppe per via il decreto del Senato, e giunto al cam­po trovò che Minucio era già edotto della promozione ~'quod nulla memoria habeat an­nalium" scrive Livio.

I due si divisero in parti eguali le legioni, i cavalli e gli ausiliari degli alleati, e si se­pararono di accampamento: "N'ebbe Annibale doppia allegrezza; perciocchè non gli sfuggiva niente di quello, che si faceva presso i nemici, molte cose risapendole dai di­sertori, molte col mezzo delle sue spie: cosi, fatta libera temerità di Minucio, lo avrebbe attrappato a suo modo, e s'era tolta all'accortezza di Fabio la metà delle sue forze.

Tra il campo di Minucio e quello dei Cartaginesi v'era un piccolo poggio: chi l'avesse occupato, metteva certamente il nemico in svantaggio di sito. Annibale mi­rava non tanto a pigliarlo senza combattere (benchè fosse pregio dell'opera) quanto a cogliere un motivo di combattere con Minucio, il quale sapeva che sarebbe sempre corso ad opporsi. Tutto il terreno di mezzo sembrava al primo aspetto disutile affat­to per agguati, perchè non era, non che imboscato, nè pur vestito di cespugli: in fatto "però tanto più atto a nascondere le insidie quanto più, in una valle si nuda, non si po­teva temere di tal frode. Ma v'erano negli anfratti delle rupi scavate si, che alcune po­tevan capire persino duecento armati.

In questi nascondigli si occultarono cinque mila tra cavalli e fanti, quanti potevano stare comodamente in ciascun luogo. Acciocchè però o l'imprudente sortita di talu­no, o il luccicare dell'armi non palesasse per avventura, in si aperta vallata, la frode, spediti alcuni pochi sul far del giorno a prendere il poggio anzidetto, diverti l'occhio dei nemici. Subito a prima vista i Romani disprezzarono la pochezza del numero, e ognuno chiedeva l'impresa per sè di discacciarne il nemico; e lo stesso comandante chiama all'armi i più stolidi e feroci a prendere quel posto, e con vano orgoglio e con minacce rampogna i nemici. Da principio manda quelli di leggera armatura, indi le squadre dei cavalli serrate insieme: finalmente, vedendo che venivano aiuti anche al "nemico, si fa innanzi colle legioni in ordinanza. E col crescere della zuffa, mandando "Annibale ai suoi aiuti sopra aiuti di fanti e di cavalli, già s'era venuto a giusta batta­glia, e si combatteva d'ambe le parti con tutte le forze.

La prima legione dei Romani, di leggera armatura, movendo dal basso all'erta del poggio di già occupato, respinta e già cacciata portò il terrore tra i cavalli, che veni­vano salendo, e rifuggissi alle insegne delle legioni. La sola fanteria, nella costerna­zione degli altri, era intrepida, e mostrava che, se quella fosse regolare battaglia, se si combattesse in forma propria, non rimarrebbe certo al disotto: tanto coraggio avea preso alla vittoria pochi giorni innanzi ottenuta. Ma balzati fuori all'improvviso gl'insidiatori, tal fecero scompiglio e terrore, lanciandosi di qua e di là sui fianchi ed alle spalle, che non rimase ad alcuno nè forza di combattere, nè speranza di fuggire. "Allora Fabio, udite le prime grida dei soldati spaventati, poi veduto da lungi tutto l'esercito in disordine, Così è disse; non più presto di quello che temetti, la fortuna punisce la temerità. Quegli che fu eguagliato a Fabio nel comando vede ora che An­nibale gli è superiore infelicità ed in virtù. Ma saravvi altro tempo di corrucciarsi, di sgridare: adesso traete fuori le insegne. Strappiamo al nemico la vittoria, ed ai citta­dini la confessione dell'errore.

Altri essendo in gran parte tagliati a pezzi, altri mirando a fuggire, all'improvviso, quasi discesa dal cielo, si presenta in loro aiuto la gente di Fabio. Essa, prima che fosse a tiro d'arco, o cominciasse a combattere, ritenne i suoi dal disperato fuggire, ed i nemici dall'accanito combattere. Quelli che, rotta l'ordinanza, erravano disper­si, da ogni parte si ricovravano presso le schiere non tocche; quelli che in grosse ban­de avevan date le spalle, voltata la faccia contro il nemico, e facendosi in cerchio ora a poco a poco si ritiravano, ora stringendosi insieme si fermavano. E già l'illeso eser­cito ed il vinto formavano un sol corpo, e si spingevano addosso al nemico, quando Annibale sonò a raccolta, dichiarando pubblicamente che egli aveva vinto Minucio,"Fabio lui ".

Minucio tornato al campo, rassegnò il comando nelle mani del Dittatore pregan­dolo di conservargli il magistrato dei Cavalieri, e il Dittatore accondiscese fra il plauso delle legioni, liete di tornare ad unità d'obbedienza. Strana figura questo Minucio, che briga in segreto contro il Massimo presso la camarilla d'opposizione, e poi riconosce la propria inferiorità, dando una lezione di saggezza al Senato che aveva commesso l'er­rore di esaltarlo!

L'anno dopo, Roma, tarlata dalle passioni politiche e insidiata nella sua stessa vi­talità dai politicanti della metropoli, era sconfitta a Canne.

* L 'Anfiteatro - Chi dalla Stazione ferroviaria risale la Consolare Sannitica che volge a Termoli, dopo un percorso di circa 850 metri s'imbatte nei pochi ruderi super­stiti dell'antico anfiteatro frentano, che il dotto mons. Tria fece idealmente e grafica­mente ricostruire dall'architetto romano Pietro Torelli, su disegni forniti dal pittore Paolo Gamba da Ripabottoni.

I ruderi presentano il prospetto a mattoni reticolati e l'interno a calcare comune, ed attestano che il cospicuo edificio aveva il diametro esteriore di metri 95, la superficie di oltre 7000 metri quadri, l'elevazione di tre piani con quattro porte d'ingresso ed 84 finestre, e la capacità bastevole a 16000 spettatori.

Dall'orazione Cluenziana di Cicerone è dato argomentare che l'Anfiteatro esistes­se a quel tempo, e cioè nell'anno 62 a. C.: dicendo l'arpinate in essa che Oppianico chiamò a Larino il figlio che trovavasi a Teano Appulo in educazione presso la madre accersit subito sine causa puerum Theano, quod facere, nisi ludis publicis, aut festis diebus antea non solebat" (198). L'Anfiteatro di Larino, perciò, precesse nel tempo quello di Pompei costruito nel 70, ed il Colosseo che ricorda i tempi di Vespasiano e di Tito: val quanto dire la seconda metà del primo secolo dell'era volgare.

Larino può essere giustamente orgogliosa di quei nobilissimi avanzi della sua re­motissima civiltà, poichè di veri e propri anfiteatri sono relativamente scarsi i ricordi



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